finalmente c'è

La perdita di tempo perfetta per chi non ha tempo da perdere

TpG: docz: Capitano contro Pirata: 7

SETTIMO CAPITOLO
I folli risvegli del Pirata Barbabigia

Nel quale si racconta di come il Pirata Barbanera la mattina si svegli sempre con una certa acidità di stomaco, e dei problemi che a ciò conseguono.

Il Pirata Barbabigia una mattina si alzò con la bocca acida, si guardò intorno nella cabina e si rese conto di aver dormito nella cabina di un altro. Dopo una buona ventina di minuti, cominciò a supporre di essere andato a dormire ubriaco. Dopo tre quarti d’ora, con un mal di testa porco, il Pirata Barbabigia non ebbe dubbi: la sera prima si era ubriacato, oggi stava male, e per ora di cena sarebbe stato ubriaco di nuovo.

Una mattina il Pirata Barbabigia si svegliò, confuso e felice come Carmen Consoli, nel suo immenso lettone, circondato dalle sue giovani concubine. Per un attimo, si sentì gaijardo e ttotsto, amatore instancabile e spietato sciupafemmine, che amava sedurre e abbandonare come respirare. Tirò un gran respiro, fiero della propria tronfia mascolinità. Grande fu il suo imbarazzo quando si rese conto di aver fatto la pipì a letto.

Una magnifica mattina di primavera, con il mare che spumeggiava allegro e vivace come lo spumante, il Pirata Barbabigia si svegliò di soprassalto, angosciato dai fantasmi del passato, traviato dalle difficoltà del presente e attanagliato dalle incertezze del futuro. I suoi timori esistenziali si placarono quando gli portarono la colazione a letto: i Pan di Stelle del Mulino Bianco, i suoi preferiti. Subito placò i suoi tormenti esistenziali, sbafandosi un chilo di biscotti.

Si era di maggio: una volta il Pirata Barbabigia si svegliò all’alba; andò in plancia di comando, eppoi alla postazione del timoniere, eppoi sul castello di poppa, ove si fermò ad ammirare l’immenso cielo rossastro dell’alba, con un tripudio di colori che ammantavano l’oceano, il cielo, le nuvole alte e immense, e il Bloody Mary, piccolo guscio di noce nell’immensità azzurro cupo del mare, che andava pian piano prendendo colore. Dopo un minuto il Pirata Barbabigia, commosso da cotanta bellezza, vomitò abbondantemente i fagioli con le cotiche del mese prima.

Il Pirata Barbabigia non avrebbe fatto il Pirata ancora per molto: ancora due anni, e poi andava in pensione. Eh, lui sì che era furbo: si era preparato il buen retiro, s’era fatto la pensione integrativa, altro che INPS!

Si era preparato un bel bottino, laggiù, nell’Oceano Indiano, sull’Isola Deserta del Vulcano Bolso, nella Baia Verde, sulla Spiaggia Rosa, nella Grotta del Teschio Blu, dodici passi a destra nel cunicolo sulla sinistra, poi si scendeva, c’era una porta, entravi, ti accomodavi, aspettavi il tuo turno sfogliando riviste di automobilismo o numeri arretrati di Stop o Eva Tremila, poi veniva un’infermiera a dirti "prego, si accomodi, il Dottore e’ subito da lei", e allora tu entravi, c’era un masso, lo si faceva rotolare, si evitavano i pipistrelli bastardi succhiasangue, poi c’erano le Talpe Rosse dello Sri Lanka, con due dentoni fottuti che ti staccavano una gamba con un morsettino, poi si prendeva una moneta, si tirava a caso, si andava in prigione direttamente e senza passare dal Via!, si seguivano le chiare indicazioni alle pareti e si giungeva al Tesoro del Pirata Barbabigia: quindici casse colme di oro, incenso, mirra, gioielli, rubini grossi come polpette, smeraldi grossi come cipolle, diamanti grossi come pompelmi, topazi grossi come angurie, ametiste grosse come meloni, meloni grossi come angurie e angurie grosse come pompelmi. E pompelmi grossi come pompelmi. Qualcuno aveva fatto un po’ di confusione.

Il Pirata aveva nascosto il suo Tesoro per bene: aveva scavato una buca profonda cinquecentomila cubiti, ci aveva messo sul fondo i forzieri, gli scrigni e le burnìe piene di dobloni, ci aveva messo sopra tonnellate di sassi, calcestruzzo, basalto, detriti, sassi, una frana e un promontorio, aveva cancellato i segni dello scavo, aveva mimetizzato l’ingresso della caverna, aveva mimetizzato la foresta circostante, aveva mimetizzato la montagna dove c’era la Grotta del Teschio Blu, aveva mimetizzato l’Isola deserta del Vulcano Bolso, aveva mimetizzato l’intero arcipelago, aveva comprato tutti gli atlanti del mondo e ci aveva fatto cancellare l’Isola, l’arcipelago e l’oceano, aveva corretto col bianchetto tutti i mappamondi del mondo, ed infine aveva ammazzato tutti tutti tutti quelli che potevano sapere dov’era il Tesoro, anche alla lontana, anche solo per sentito dire, anche solo come pettegolezzo, aveva trucidato brutalmente anche chi solo avesse sentito per caso, compresi i cognati di quelli che avrebbero potuto sapere per caso, compresi quelli che avevano sentito raccontare una mattina sul tram andando a lavorare, un lunedì mattina che piove, quando origli i discorsi dei vicini, ebbè, se non fai attenzione il Pirata Barbabigia ammazza anche te, insomma: aveva fatto le cose per bene.

Stava per ammazzarsi anche lui: non doveva rimanere assolutamente nessuno che sapesse. Neanche lui. Poi però era rimasto senza munizioni della pistola, era uscito un attimo a comprare le munizioni, sotto casa aveva trovato il Giuanin ‘l Drugiot, insieme erano andati alla Piola a farsi un quartino di vinaccio rosso da piola: i quartini crescono, la lingua s’impasta e le palpebre crollano, e alla fine chi si ricordava più che doveva spararsi un colpo?

L’Immenso Tesoro era in origine il Tributo del Governatore della Guinea alla Corona Inglese, quale pegno di pace per la spinosa questione delle Miniere d’oro del Guinatambo; nell’intercettare e depredare la nave con il tributo del Governatore al Re, il Pirata Barbabigia aveva acchiappato tre piccioni con una fava:

a) aveva fatto incazzare il Re che non aveva beccato i dindi dal Governatore Guinatambo
b) aveva fatto incazzare il Governatore perché, in virtù di a), fu impiccato, tagliato a rondelle e dato in pasto al gatto del Re
c) aveva fatto felice sé stesso, in quanto come conseguenza di a) e b), era diventato ricco da far vomitare un porco in calore.

Il Pirata Barbabigia se la godeva troppo, quando riusciva a comportarsi in modo spregevole e amorale: gli riusciva facile, il suo era un talento naturale che gli dava da vivere, e, si sa, riuscire bene nel proprio lavoro è una gran cosa.

Tutto questo ben di Dio il Pirata Barbabigia se lo sarebbe spupazzato e goduto libidinosamente durante la lunga e dorata vecchiaia che lo attendeva; giunto sull’isola deserta del vulcano bolso, avrebbe parcheggiato la barchina nella Baia Verde, sarebbe sceso di gran carriera con i callosi piedoni che affondavano nella sabbia rosa della Spiaggia Rosa, sarebbe corso a perdifiato alla Grotta, avrebbe disseppellito le casse con le mani nude, si sarebbe tuffato come Zio Paperone in tutto quel ben di Dio, e poi se lo sarebbe portato sulla spiaggia, cassa per cassa, se lo sarebbe caricato sulla barchina, che sarebbe affondata poco dopo dato l’eccessivo peso; il tesoro sarebbe andato in fondo al mare, e il Pirata Barbabigia sarebbe finito in pancia ai pesci.

Boccheggiante ansimeggiante, sarebbe affogato come uno di quei pirla che fanno il bagno subito dopo mangiato, e si sarebbe ricordato (troppo tardi!) di suo padre, della sua lezione morale, del suo fulgido esempio di rettitudine e virtù, e gli sarebbero risuonate nelle recchie zozze le limpide parole ammonitrici paterne, che il babbo soleva ripetergli nelle lunghe sere d’inverno, quando lo teneva sulle ginocchia di fronte al camino, all’allegro scoppiettar del focherello, e gli diceva:

“esci i creaturi dall’acqua, che stanno appena mangiati!”

Una mattina di maggio, con il sole che ai tropici picchia sempre duro, e quindi anche a maggio picchiava duro, il Pirata Barbabigia si svegliò con la stanza piena di luce. I raggi lo colpivano direttamente in faccia, e nello svegliarsi ebbe un attimo di incertezza, stordito dai bagordi e dagli eccessi della notte precedente, poi si rimise in carreggiata, ritrovò la sua anima più genuina, e sbottò in un sincero “ma che cazzo è tutta ‘sta luce”.

Certe luminose mattine d’estate, con il sole già alto la mattina presto, l’alba era un tingersi di rosei cirri alti nel cielo, che si stagliavano contro il cielo ancora azzurro cupo della notte. Erano di quelle albe spettacolari che facevano girare le balle, insomma. E al Pirata Barbabigia, quando le balle giravano, eh signori miei, giravano a mille.

Erano quelli i giorni preferiti per far fare qualche giro di chiglia ai pirati più mollaccioni, onde raddrizzargli la schiena e riportarli sulla retta via della perdizione, del malaffare, del vizio e della spregevolezza. Bisogna colpirne uno per edurcarne cento, diceva il Pirata Barbabigia, riferendosi più che altro ai gattini che gli scorrazzavano in cabina e gli graffiavano tutti i mobili per farsi le unghie.

Si faceva così: preso il pirata mollaccione da redimere, legati i piedi a una lunga cima, la si faceva passare sotto la chiglia della nave, e dall’altra parte del ponte si tirava; giuocoforza il malcapitato si sentiva come tirato per i piedi, eppoi cadeva in mare, eppoi si sentiva trascinato sotto il vascello, lunghi minuti di apnea forzata, in cui intanto il pirata si beveva mezzo oceano, glu glu glu, eppoi si sentiva tirato su per i piedi dall’altro lato della nave, e veniva issato a bordo. Poi, si ricominciava, nell’altro senso, finché non ci si stufava; a quel punto si lasciava la cima, e che quello smidollato se lo mangiassero pure gli squali, e che gli andasse di traverso, e che lo squalo vorace morisse pure soffocato, che venisse pure pescato morto, e che invece aperta la pancia si trovasse il pirata ancora vivo, che lui ringraziasse ai pescatori di averlo salvato, e che i pescatori lo scambiassero per Pinocchio, e che incominciassero a chiedergli dove stava Geppetto, e che cominciassero a dargli colpetti di gomito e a chiederli “dì, ma senti un po’, ma tu, alla fata turchina, ci hai mai toccato il sedere?”, e che il pirata non capisse, e che allora i pescatori s’incazzassero, e lo uccidessero, e lo rivendessero al mercato come filetti di platessa alla mugnaia pronti in cinque minuti, per cambiare la vita da così a così, che li comprasse una pia donnina, chepperò nel tornare a casa morisse di sciupùn, e che i filetti di platessa alla mugnaia se li mangiasse un gattino rognoso che passava per caso, e che alla fine se ne andassero tutti a prendersela nel gnaus.

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